RB 1,1-2 – È noto che vi sono quattro generi di monaci. Il primo è quello dei cenobiti, ossia di coloro che vivono in monastero e obbediscono a una Regola e a un abate.

Benedetto elenca quattro generi di monaci, ma forse possiamo dire che esistono molti generi di monaci, cioè diverse modalità di interpretare e vivere la vita monastica. Alcune buone, altre forse meno, ma sarà la storia a giudicarle. Questa indicazione però possiamo coglierla come un avvertimento: non basta assumere una regola, far parte di un gruppo, indossare un abito; è il nostro cuore, la nostra relazione con Dio che determina la bontà o meno del nostro genere di vita. Certamente le strutture possono aiutare o essere un impedimento, ma non cancellano mai la nostra responsabilità personale. Benedetto si rivolge ad ogni singolo monaco perché è lui che in prima persona deve assumersi la responsabilità del proprio cammino umano e spirituale.

Le caratteristiche peculiari del primo genere di monaci sono: il vivere in monastero; l’obbedire a una Regola e a un abate. Usando altre parole potremmo dire: vivere insieme in un ambito preciso scegliendo cioè di fare di quel gruppo di persone e quel luogo il nostro spazio/ambito vitale. Questo significa dare importanza alle relazioni interpersonali e agli spazi di vita curando in questo modo la dimensione comunitaria. Le relazioni in cui sono chiamato a giocarmi sono prima di tutto quelle “prossime”, anche se più faticose e poco gratificanti. Le relazioni con l’esterno, sane e importanti, non possono e non devono distogliere da quelle interne (alla famiglia, alla comunità, ecc.), altrimenti sarebbero delle compensazioni. Anche lo spazio è importante in questa dinamica, tanto che la clausura è un impegno a giocarsi proprio nell’ambito spaziale del monastero. Non è una questione di grate, ma di dove ci si mette in gioco e ci si spende.

L’altro asse fondamentale è l’obbedienza che nel resto della Regola diventerà un invito a non fare la volontà propria, ma a restare continuamente in ricerca della volontà di Dio, motivo per cui si è entrati in monastero. Ci può essere un’obbedienza formale che però è ripiegata su se stessi, che cioè mette se stessi come centro della propria esistenza, mentre siamo chiamati ad arrivare a mettere Dio al centro. La Regola e l’abate sono due realtà esterne con le quali sono chiamato a misurarmi per capire se nel mio discernere le piccole e grandi questioni della vita parto da me stesso e cerco me stesso, o sono capace di cercare un’altra voce. L’obbedienza, prima di avere di mira un’uniformità di vita, ha di mira un cammino spirituale autentico che non rischi di far coincidere la volontà di Dio con i propri desideri.

Un testo e un uomo per trovare e mantenere un equilibrio tra principi/valori e situazioni concrete puntuali, cioè una capacità di incarnare nel reale un cammino di sequela di Dio. Non si tratta infatti di compiere la volontà dell’abate o la lettera della Regola, ma la volontà di Dio e questi due strumenti mi sono donati per aiutarmi a farlo. La loro “alterità” mi costringe a verificare il mio modo di reagire a certi richiami per trovare il modo evangelico di viverli. Mi aiutano a non far diventare Dio uno specchio in cui ritrovarmi o addirittura giustificare certi miei comportamenti.