RB 1,6-9 – Il terzo genere di monaci – detestabile sotto ogni punto di vista – è quello dei sarabaiti. Non temperati da alcuna regola, né educati dall’esperienza – come l’oro viene purificato nella fornace – essi sono diventati molli come il piombo. Per la loro condotta di vita sono ancora del mondo, mentre con la loro tonsura mentiscono palesemente a Dio. Vivono a due, a tre, o anche soli, senza pastore, non custoditi negli ovili del Signore, ma chiusi nei propri, seguendo le loro velleità quale unica norma di vita. Considerano santo tutto ciò che corrisponde al loro modo di pensare e ai loro desideri, mentre ritengono illecito quanto non è di loro gradimento.

Dopo aver presentato due modelli positivi Benedetto ne presenta due negativi. In essi possiamo cogliere dei rischi presenti in ogni cammino monastico. Senza vigilanza il sarabaita e il girovago che è in noi può prendere piede e svilire il nostro cammino.

Che cosa rende “molle come il piombo” il sarabita, qual è il pericolo stilizzato in questa figura? Quello di un discernimento non corretto che tende ad adattare alle proprie esigenze i vari aspetti della vita. Se è vero che occorre sempre compiere un “adattamento” della Regola, come del Vangelo, alla realtà che siamo, alla situazione di oggi, alle nostre possibilità, questa però è un’operazione molto delicata. Da una parte abbiamo dei principi generali, fissati per tutti i tempi e per tutti gli uomini, dall’altra vi siamo noi, con i nostri limiti, le nostre fragilità, i nostri doni, vi è la cultura del nostro tempo con le sue tendenze positive e negative, ecc. Costruire un ponte che permetta di incarnare nell’oggi questi principi senza tradirli non è un’operazione semplice.

Benedetto sembra richiamarci soprattutto al rischio di dare troppo peso al nostro punto di vista, alla nostra sensibilità. Il sarabaita è l’estremizzazione di questo essere regola a se stessi, per cui giungono a “considerare santo tutto ciò che corrisponde al loro modo di pensare e ai loro desideri, mentre ritengono illecito quanto non è di loro gradimento”. Si tratta di una sorta di auto-centramento: io so ciò che è bene e ciò che è male.

La Regola, ma prima ancora tutta la Scrittura, ci insegnano invece che i criteri di discernimento li riceviamo, che abbiamo bisogno di tutto un cammino di educazione e di formazione per imparare ad usarli e poter riconoscere e distinguere il bene dal male. Non siamo i primi, ma siamo posti in una storia che ci precede dove molti uomini e donne si sono misurati con situazioni e problemi simili ai nostri e le loro esperienze ci sono di aiuto.

Gli elementi per contrastare questo pericolo che mi sembrano emergere da questi versetti sono la Regola e l’esperienza di quanti ci hanno preceduti, quindi la tradizione. Essi devono aiutarci a distinguere la nostra semplice sensibilità da quella parola di Dio rivolta a me in modo particolare, cioè il discernimento dei moti più profondi del nostro cuore. Il confronto con una realtà esterna a me è la strada per riconoscere l’origine e la bontà di quanto sento nel mio cuore. Questo “altro” è la regola, la tradizione e all’interno di essa l’abate e la comunità. Il discernimento della comunità e dell’abate mi è offerto per verificare il mio.