RB 2,16-18 – L’abate non faccia distinzione di persona in monastero. Non ami uno più dell’altro, pur compiacendosi di chi è migliore per l’ardore nelle buone opere e per l’obbedienza. Non anteponga mai il nobile a chi è entrato in monastero venendo dalla condizione di schiavo, salvo il caso che vi sia un altro giusto motivo per farlo.
“L’abate non faccia distinzioni”, è indicazione che oggi ci può sembrare scontata, ma non lo è, non solo per la sua epoca. Questo sguardo “libero” si fonda sulla stima che Dio ha di ciascuno di noi. Non si tratta di una uguaglianza artificiale, ma di una stima che promuove ciascuno nella sua peculiarità. Di fatto non siamo uguali, ma abbiamo tutti la stessa dignità. Non fare distinzioni significa cogliere il dono di ciascuno e valorizzarlo.
Partire da chi ciascuno è, cioè da quell’insieme di doni e fragilità che lo costituiscono, è l’unico modo per non fare distinzioni, per non fare preferenze. A ciascuno va dato in base al suo bisogno, si dirà più avanti, significa anche riconoscere la peculiarità di ciascuno e armonizzarla all’insieme della comunità.
La logica di ogni intervento deve essere quello della valorizzazione, della promozione, facendo emergere ciò che ciascuno custodisce, forse anche in modo inconsapevole, e che può e deve essere condiviso. Non è una gara a chi arriva prima, ma una gara ad arrivare tutti insieme, e quindi sapendosi portare reciprocamente.
Uguale per tutti sia dunque la carità dell’abate, che poi si declinerà in attenzioni e gesti particolari per ciascuno. La diversità di gesti, di tempi, di interventi, non è espressione di distinzioni, ma di riconoscimento dell’identità di ciascuno. Questo atteggiamento dell’abate dovrebbe essere condiviso da tutta la comunità, perché ciascuno possa trovare lo spazio vitale che gli permetta di esprimersi e mettesi in gioco per il bene di tutti. L’attenzione al singolo è sempre posta nell’insieme e per il bene della comunità.
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