RB 2,19-22 – E se, per esigenze di giustizia, l’abate decide di promuovere un fratello, egli lo faccia prescindendo dalla considerazione della classe sociale cui il monaco apparteneva. Per il resto, ciascuno tenga il proprio posto, perché schiavo o liberi, tutti siamo uno in Cristo e servendo l’unico Signore, portiamo tutti il giogo della stessa disciplina. Infatti presso Dio non c’è parzialità; l’unico titolo di merito ai suoi occhi è questo: essere migliori degli altri nel compiere il bene e vivere nell’umiltà. Uguale per tutti sia dunque la carità dell’abate, e unico il criterio nelle sue disposizioni, tenendo conto di quanto ciascuno merita.
Il vangelo viene ad abbattere ogni forma di divisione sociale, non c’è più schiavo o libero, tutti siamo uno in Cristo. Ogni uomo ha una dignità e un valore inalienabile che gli viene dall’essere figlio di Dio. Questo principio, che oggi in teoria nessuno contesterebbe, però fa fatica a diventare vissuto quotidiano, perché l’uomo è come portato a dividere e a classificare. Oggi i criteri per compiere queste divisioni sono diversi da quelli dei tempi di Paolo o di Benedetto, ma comunque presenti nella società.
L’imparzialità non è trattare tutti con la stessa misura, ma avere per tutti la stessa attenzione, cioè mettere al centro la persona e i suoi bisogni. E non significa neppure non riconoscere i meriti di ciascuno. Il fatto di giocare o non giocare i propri talenti non è indifferente, ce lo ricorda anche il Vangelo. Responsabilizzare una persona significa anche riconoscere i suoi meriti, cioè l’impegno, il coinvolgimento e le energie messe in gioco.
Per Benedetto compiere il bene e vivere nell’umiltà sono i due aspetti che mostrano la ricchezza interiore di una persona, il suo giocarsi secondo la logica del Vangelo. Compiere il bene significa portare a compimento il bene, far si che giunga a pienezza. Ciò non avviene in un gesto, anche se passa attraverso singoli gesti, ma in un orientamento costante, in un lavoro perseverante su di sé, per rinnovare le proprie relazioni, i propri comportamenti. Seminare il bene in ogni nostro gesto, in ogni nostra relazione, in ogni nostra parola perché si radichi nel profondo del nostro cuore e della nostra vita. Un atteggiamento di benevolenza, cioè di volere il bene, traspare anche sono nel sorriso, e può diventare spontaneo, naturale, solo dopo un lungo e profondo lavoro su se stessi, di conoscenza e conversione del proprio modo istintivo di reagire.
Dovrebbe allora sparire l’insofferenza, la reazione stizzita, la parola amara o velenosa, reazioni che non solo esprimono una mancanza di pace interiore, ma anche una mancanza di bene che non può uscire dal nostro cuore. Questo bene non ce lo creiamo noi, ma lo riceviamo e siamo chiamati a donarlo e diffonderlo. Ecco l’indispensabile ruolo della preghiera e del porsi davanti a Dio per essere da lui resi capaci di bene. Lui solo è buono e da Lui proviene ogni bene, anche quello che passa in una risposta gentile.
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