RB 4,51-54 – Custodire pure le proprie labbra da ogni parola cattiva o sconveniente. Non aver gusto al molto parlare. Non dire parole vane o eccitanti al riso. Non essere troppo facile al riso e alla chiassosità.
Questi versetti ruotano attorno al tema della parola, e in particolare alla cattiva parola. Ci sono parole buone che edificano, ma ci sono anche parole cattive che feriscono e che dividono.
Un primo criterio che può aiutarci a vigilare sulla qualità della nostra parola è chiederci: perché parlo in questo momento e in questa situazione, cioè che cosa mi muove? I sentimenti che mi abitano segnano e passano attraverso le parole che proferisco. Esse manifestano il mio cuore. Forse prima devo pacificare e curare il mio cuore per poter avere una parola risanata.
Un secondo criterio è chiedermi che cosa voglio ottenere? A volte rischiamo parole vuote perché non sappiamo neppure noi dove vogliamo arrivare e il nostro parlare è vano perché gira a vuoto senza meta. Altre volte so bene dove voglio arrivare e uso la parola per ottenere qualcosa forzando l’altro o usandolo per un mio interesse.
La qualità della mia parola è un riflesso della qualità del mio scopo. Se lo scopo è buono devo però chiedermi se il modo con cui cerco di perseguirlo lo è altrettanto. Il fine non giustifica i mezzi. Custodire le labbra significa discernere la bontà della mia parola per dare spazio solo a quella buona che edifica.
Interrogarmi su frutti, sugli effetti della mia parola può aiutarmi a capire se essa è così buona come mi sembrava. I frutti mi aiutano a capire la bontà della radice. La parola che scredita, proferita anche solo come battuta, magari perché infastiditi non porta nulla di buono. Essa agisce come un veleno che uccide lentamente e in modo subdolo, perché invisibile. Magari è proferita con superficialità e semplicemente per far ridere, ma intanto scava un solco e apre ferite. Il limite, lo sbaglio, il fallimento dell’altro non deve mai essere sbandierato come un trofeo o come un’occasione di vendetta. La carità che copre è quella che se usa la parola lo fa per consolare e non per mettere in ridicolo. Non è omertà, ma compassione, partecipazione alla sua sofferenza.
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